26 luglio 2015

DIARIO DI MONTAGNA - TRE MINUTI




Sì, solo questo: tre minuti. Tre minuti di silenzio. Possono essere considerati un dono? Penso di sì. E lo pensereste anche voi, se aveste il dubbio privilegio di aver la casa vicino ad un bar il cui proprietario è convinto che la sua missione nella vita sia sfracassare al prossimo anche quelle di riserva imperversando per 14-ore-al-giorno-14 con orride canzonette sceme sparate a tutto volume.


E considerate che stiamo parlando di un uomo che nella propria schifezzoteca può vantare pietre miliari della musica leggera italiana ed internazionale quali una raccapricciante versione disco della Lambada verosimilmente eseguita con un organetto Bontempi del 1982 ad accompagnamento automatico, Cimitero Di Rose -un'evergreen per giovani di tutte le età- e l’immortale Tuca Tuca di Raffaella Carrà (Anche se, a onor del vero, dobbiamo riconoscere che quest’ultima non è una sua scelta. Lui non avrebbe mai e poi mai preso un cd del genere, dai. Un po' di gusto musicale ce l'ha, ecchècavolo. E che gliel'ha dato omaggio Ahmed quando ha comprato  Il Ballo Del Qua Qua. Ovviamente non quello originale, che costa un botto, ma l’epocale cover abusiva di Giuspino E i Gerbilli).


Stamattina, mentre guardavo il laghetto dal pontile -attività impegnativa ed altamente stancante, però oh: è un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo- il barista malefico, nascosto nel suo oscuro antro dal quale, presenza invisibile ma inesorabile, instancabilmente flagella le nostre giornate, per cinque minuti è stato quasi umano: ha riesumato dalla polvere il suo unico CD del Blasco. 
Personalmente non amo molto Vasco Rossi; e in particolare i bellissimi versi che il dj personale di Lucifero ci ha rifilato stamattina,  

 “Lo sai che cosa c’è-éé-éé / Ti vedo in forma, Uééé” 

non mi sembrano esattamente un testo stile De Andrè o il primo Vecchioni. Che poi, per inciso, mettere giù la carta delle interiezioni ed esclamazioni è pure un modo furbacchio per fare la rima, che ci spalanca innanzi un universo di nuove, affascinanti possibilità: “Io non ti penso mai / e non manchi, ahi-ii-ìì” "Mi costruirò un iglù / col ghiaccio in freezer, uù-ùù-ùùù “Non so se ho chiuso il gas / va a controllare, uà-àà-ààss”. Comunque, rispetto agli squallori sonori che l’infame essere è solito propinarci, il vecchio Vasco è Mozart; quindi andava già di lusso. Ma la felice e rarissima congiunzione astrale ha raggiunto vette prossime al sublime quando a un certo punto, senza preavviso alcuno, nel bel mezzo di una strofa, da qualche parte nelle profonde tenebrose viscere del bar malefico un invisibile dito è calato sul tastino “STOP”. 
E, improvvisamente, inaspettatamente, tutto intorno è stato


s   i   l   e   n   z   i   o .





Silenzio. 


In cui hanno ritrovato uno spazio i piccoli suoni della quotidianità, solitamente sommersi  dall’incessante “BUNK! BUNK! BO-BO-BUNK!”. Il canto degli uccelli. Lo sciacquettare pigro dell’acqua che si infrange contro il piccolo molo ma con calma, senza accanimento; quasi con dolcezza. Cose così. In lontananza qualche auto, ma anche questo è un suono che appartiene all'ambiente, ovattato, discreto. 
Il fruscio sommesso della vita.




E allora, ti sei chiesto perché. Perché quest’ansia di coprire, riempire a tutti i costi. Copriamo il silenzio con il frastuono; riempiamo gli spazi vuoti con cartelloni e colori sguaiati, l’equivalente visivo dei decibel a palla. In una frazioncina di montagna qui vicino, giusto un grappolo di casette antiche con i tetti grigi di ardesia raccolte intorno ad una piccola chiesa, un megacartellone da stadio con le scritte luminose annuncia al mondo le meraviglie dei Profilati In Rame di Pautasso Giuseppe E Figli. Come no: uno sta andando a camminare, zaino e scarponi e pensieri bucolici e dai che magari oggi vedo le marmotte; poi alza gli occhi, legge la scritta luminosa e resta folgorato sulla via di Damasco: “Cacchio, sì! Ecco cosa è sempre mancato nella mia vita: un profilato in rame!”. Non sarà esattamente come vedere una croce nel cielo ma va be’, ogni epoca ha le visioni che si merita. E noi ci meritiamo queste, evidentemente. C’è un posto, all’uscita di un altro paesino, dove passo sovente. Quando ero piccola lì c’erano i pini. Verde, ombra; due o tre panchine. Proprio niente di che; però era spontaneo, era natura. In un suo modo semplice semplice e senza pretese, era bello. Noi bambini ci giocavamo a nascondino. Ora hanno tagliato gli alberi, coperto di asfalto una buona parte dell’erba e messo qua e là degli stambecchi di plastica. Perché amiamo la natura, cosa credete. Fatti da schifo, tra l’altro, che se prendevano il pupazzo di Dumbo da una giostra veniva una cosa più realistica, e colorati a colpi di pennellessa da un imbianchino daltonico. Il pezzo forte dell’attrazione è una specie di statua di San Francesco che parla a un lupo (di plastica) marchianamente fuori scala, e se premi un pulsante senti il discorso registrato. Nello stesso paesino, del resto, nella piazzetta c’è un altoparlante che ogni mattina alle otto diffonde il finto chicchirichì di un inesistente gallo. 
E no, non me lo sto inventando.




Del resto, siamo così. Vogliamo emozioni e le cerchiamo di volta in volta nel virtuale, nell’artificioso, nell’eccessivo, nel gridato. Ma prova a fare una cosa semplice come andare in alta montagna, sederti davanti ad una scarpata o un altro paesaggio maestoso, e ascoltare negli auricolari i Carmina Burana; e poi dimmelo, se non ti è venuta la pelle d’oca dalla bellezza.

Ma no: noi abbiamo fretta. Sorvoliamo le cose senza scendere, senza posarci. Invece di guardare, fotografiamo. Davanti ad un piatto che ci fa venire l'acquolina, prima di assaggiarlo lo postiamo su Facciabucco. In un giorno visitiamo due cittadine, un fiordo, un villaggio di pescatori caratteristico, un altipiano e un museo di scatole di sardine; e dopo una settimana per ricordare come si chiamavano i posti che abbiamo visto dobbiamo andare a rileggere il programma del viaggio.


 

Eppure, qualche giorno fa, un’amica raccontava di una cena in montagna, e di bambini di amici tornati felici da una passeggiata notturna in un bosco. In cui avevano corso, giocato, riso; ma soprattutto –di questo erano entusiasti- visto miriadi di lucciole. E questo, in qualche modo un po’ strano e un po’ da sognatore, ti conforta. Perchè ti dici che, finchè dei bambini cresciuti a smartphone e playstation e film in 3D sono capaci di sorridere vedendo le lucciole, c'è ancora una speranza. 





**** 





P.s. Per la cronaca: passati i tre minuti, nei quali, evidentemente, non si era ravveduto, ma stava solo esitando nella scelta tra Romagna Mia o Attenti A Me / Sono Un Vampiro (che non so da dove picchio venga fuori ma ahimè vi posso assicurare, esiste), il barista servitore del Male ha messo su Raffaella Carrà. E l’incanto di quei tre minuti è svanito, fino a data da defnirsi.

Per fortuna esistono i lettori MP3. Così copro il rumore che costui considera musica solo perchè ritmato con altre canzoni che, invece, amo; anche se in fondo sto solo coprendo il frastuono con altri suoni più forti, e questo allontana ancora di più dal silenzio. E mi chiedo quanto cammino bisognerebbe avere fatto, nel proprio cuore, per riuscire a fare silenzio così forte, dentro di sé, da saper coprire il rumore con il silenzio. E quest'ultima frase probabilmente è una scemata colossale ma che ne so, a me sembra che significhi qualcosa.

Nessun commento:

Posta un commento

Se volete lasciare un saluto, siete benvenuti!