29 novembre 2015

DOLCE E AMARO



O anche:


ALLEGRETTO  e  MOLTO LENTO, CON DOLORE

Ma soprattutto: 


La vita nel buffo, strampalato, tenero, lieve mondo dell’Orbettino. 


E quella vera.






DOLCE


E VIA, VERSO LE STELLE / SUL PATTINO A ROTELLE





E’ la prima volta che mette i pattini a rotelle, ci potresti scommettere. E probabilmente si sta chiedendo cosa mai ci trovino  di tanto divertente gli altri bambini. Il viso è teso nello sforzo di mantenere l'equilibrio, quasi contratto per la paura di cadere. L'epressione che ne deriva è associabile più ad una seduta di detartrasi da un dentista col singhiozzo  che ad un gioioso, lieve, vispo e spensierato svago infantile. Tantopiù che forse sta anche soffrendo la delusione. Quella di aver ricevuto un dono che credeva bellissimo per poi scoprire di non riuscire ad andare avanti. In nessun modo. Ce la sta  mettendo tutta, ma, come viene istintivo ai bambini che usano per la prima volta i pattini in linea, cerca di procedere come camminando, a piedi paralleli. Facendo cosí conoscenza a sue spese dell'antipatica legge fisica che, in soldoni, afferma che il baricentro è un fituso, e se nessuno lo obbliga di brutto dandogli una spinta, col picchio che si schioda da dove sta solo per fare un piacere a te. Cosí, mentre un piede va avanti l’altro inesorabilmente scivola indietro; e l’infelice proprietaria degli stessi nel suo complesso resta dov’è. E se la invano dibattentesi creatura è giunta fin qui sotto il tuo sguardo, è solo grazie ad apposito dispositivo di traino, costituito da nonna volenterosa che se la tira dietro per un braccio. Di peso.



Al che tu, forte di un curriculum sportivo con i pattini in linea di tutto rispetto che può vantare un record personale, raggiunto alla tenera età di trent'anni, di ben tre giri dei giardinetti di seguito frapposti tra un rovinoso sfracassamento sull’asfalto ed il successivo, naturalmente e professionalmente vocata all’istruzione delle giovani menti, nonché geneticamente portata a ficcare il naso in questioni che non ti riguardano, non ti trattieni. E, dopo aver chiesto l’autorizzazione all’unico elemento efficace del sistema pattini-nipote-nonna, cerchi di illuminare l’innocente creatura circa il principio fondamentale della locomozione a rotelle. 

“Vedi, se tu tieni i piedi dritti, così, non vai avanti."


(A questo punto, per maggior efficacia e presa nell'enfasi del discorso, cerchi anche di mimare il concetto. Il che, essendo tu rotellopriva e calzando, anzi, un paio di peraltro eleganti,  ed aggraziatissimi sandali Birkenstock -la calzatura raffinata per la carampana di classe-  che sul legno della passerella del lago fanno una presa tipo ventosa riempita di cemento a presa rapida con un giro di Bostik intorno per maggior sicurezza, ti riesce in modo che definire penoso è approssimare per eccesso. Per inciso, mentre tu ti produci in un'appassionante e soprattutto CHIARISSIMA imitazione di uno che scivola troppo eseguita da uno che non scivola per niente, la bambina non è che sprizzi tutta questa evidente, commossa e quasi incontenibile gratitudine per cotanta condivisione di sapere. Cioè, a dirla tutta si vede proprio il fumetto a nuvoletta con il pensiero che le esce dalla testa: “Non era già abbastanza difficile, ci mancava solo 'sta 'nvasata, ci mancava”.
E'intimidita, a disagio. Ma ascolta. Anche perchè, essendosi la nonna fermata ed essendo lei tragicamente rotellata, non è che abbia  molte alternative, in effetti. E poi, diciamolo: se tu ti dovessi scoraggiare ogni volta che ti accingi a fare dono ad una giovane parte di  umanità di cose da te apprese con tempo e fatica e la parte di umanità suddetta ti guarda con lo stesso vivo interesse con cui un fan di Marilyn Manson seguirebbe una maratona non stop dei Teletubbies, non porteresti a casa la pagnotta da un pezzo. E quindi, continui imperterrita. Aiò.).



“Invece, metti quello dietro di traverso, cosí (la rappresentante delle generazioni del futuro, perplessa e piú vinta che convinta, diligentemente esegue). E ora lo usi per darti la spinta. E poi…” 


E poi, almeno per quel che riguarda la tua volenterosa lezioncina, un bel niente. Perché la discente, tapina, ha eseguito. Dopodiché, forse rinfrancata dal fatto che, effettivamente per la primissima volta SI E’ SPOSTATA DI UNA VENTINA DI CENTIMETRI DI MOTO PROPRIO, reitera l'audace gesto. 
E reitera. Reitera. Reitera. La nonna, che la tiene ancora per mano quale supporto di sicurezza, fa appena in tempo a lanciarti un “Grazie!” al volo con un bel sorriso simpatico mentre parte al piccolo trotto dietro alla finalmente semovente nipotonzola; e fine. 



Breve ma intenso.



E' stato bello finchè è durato,


e cose così.



Mentre tu, ormai sola come un salame, concludi la frase rivolgendoti tristemente al nulla: “…e poi, quando hai imparato, alterni con l'altro piede.”



E quindi. 



E quindi resti a guardare, sempre più da lontano, la piccola infelice che, orba di cotanta non marginale informazione, con zelo degno di miglior causa continua a spingere come una forsennata. Sempre dallo stesso lato.
Probabilmente, a giudicare dalla palese fatica del gesto atletico, rimpiangendo i cari bei vecchi tempi in cui procedeva a trazione parentale, nonchè maledicendo l’infausto giorno in cui ha avuto la bella pensata di chiedere in regalo quei cosi malefici e depennando mentalmente vita natural durante
da tutte le liste facciabucche, uozzappe e non, virtuali e materiali, passate, presenti e future e, per maggior sicurezza, pure congiuntive e participie, in questo e tutti gli universi paralleli, gli amichetti che glie li hanno tanto raccomandati, brutti, cattivi, fetenti e tirapacchi.




Bene: ho creato un mostro. Speriamo che si sia fermata, prima o poi. Ma se un giorno doveste vedere dalle vostre parti una sventurata frugoletta che arranca sui pattini pagaiando con un solo piede come se non ci fosse un domani e purcunando peggio di un carrettiere ubriaco di Tavernello tagliato male, dite a Carolina Koestner che, per un po', può ancora dormire sonni tranquilli.







AMARO


BRICIOLE




Indossa jeans e una maglietta che per gli altri è rossa. Parla fitto in francese con un’altra ragazza, poco più giovane, che la tiene a braccetto. Non c’è tristezza nel modo in cui fa ticchettare il bastone –non bianco, un comune bastoncino da trekking- esplorando i materiali del piccolo molo, ma una curiosità positiva, allegra; quasi gioiosa. E' come se stesse salutando il legno della passerella scolorito dal sole e il bordo di metallo; i piccoli tasselli che compongono questo minuscolo angolo di mondo. Immerge la punta nell’acqua e la smuove per saggiarne la presenza, la resistenza, il suono, la sensazione. Nel frattempo l’amica le racconta il paesaggio. Pennellate veloci, poche frasi ma precise, nitide, efficaci. La riva che da questo lato non è ripida, di erba e ciotoli. Il colore dell’acqua, “è scura e non si vede attraverso, ma non è sporca”. Lei ascolta, il viso nella direzione che intuisce l’altra stia descrivendo, sulle labbra un sorriso a qualcosa che vede solo con l'immaginazione. “Canoe?” domanda, curiosa. “Sì, una. Lontana”. Lei sorride ancora. Al sole, alla brezza sul viso, alla dolcezza dell'aria. Alla quieta bellezza scintillante di una mattina d'estate che non può vedere.  Poi tornano a riva. La maglietta che per tutti gli altri è rossa si perde tra altri colori, altre persone, altre storie.





Stesso posto, stessa mattina. Lui ha sui quarant’anni; lei in un primo momento pensi sia la madre. Lui la tiene per mano in quel modo particolare che è un gesto di tenerezza ma al bisogno è pronto a trasformarsi in qualcosa di più pratico, non è solo poesia ma anche uno stare all'erta, se vacilli ti posso sostenere, non ti lascerò cadere; se hai bisogno ci sono, io sono qui. Quando scendono i pochi gradini che portano al piccolo molo sul lago la stretta si fa più ferma e visibile, lo si nota bene adesso, ora la sta proprio sorreggendo.

Poi ti passano accanto, e allora realizzi che lei ha la sua età. Forse qualcosa di meno. Ad averti ingannata, prima, è il gonfiore innaturale del viso. I lineamenti resi generici, stilizzati dagli occhi senza sopracciglia né ciglia dietro le lenti spesse. La testa senza capelli coperta solo in parte da un berrettino sportivo a colori vivaci, un berretto allegro da ragazzino, nato per momenti tanto diversi da questo. Su un braccio un bendaggio ad altezza flebo, sulle labbra un sorriso un po' incerto, esitante, sospeso com'è tra la sensazione spaesata di un ambiente aperto a cui non si è più abituati, la fatica di mettere un piede davanti all’altro per compiere qualcosa che fino a poche settimane prima era la cosa più facile del mondo e la felicità furiosa dell’”Oh Dio, sono qui, in questo momento; sono viva”. A piccoli passi lenti arrivano sulla punta del piccolo molo. E lì, lui a lei, poi lei a lui, si scattano una fotografia.

Una semplice, normalissima fotografia con il telefonino.

Come se stessero vivendo il momento più banale del mondo; come se ogni cosa andasse bene. Come se non stessero camminando su un filo teso sul baratro, che se guardi giù c'è da perderti dal terrore. Decisi a vivere questa mattina d'estate nonostante tutto, a strappare alla vita il piccolo incommensurabile lusso di un semplice, banale giorno di normalità. Sorridono all’obiettivo, nella classica immagine su cui dire un giorno guarda, qui eravamo al lago, ti ricordi, c’era il sole e un cielo blu come si vede di rado, al mattino non trovavo le chiavi della macchina e al ritorno ci abbiamo messo un po' perchè c'era coda; piccole cose così. Tra cui la frase "era l'estate in cui facevi la chemio" scivolerà quasi con lievità, come se quasi non facesse male, come se non fosse -quasi- la cosa terribile che è.
Nascosta, ammortizzata tra piccole, insignificanti briciole di normalità, che una volta erano meno di nulla e oggi sono  cosí tanto. Che, oggi, sono diventate tutto. Qualcosa da conquistare, frammento per frammento. Qualcosa per cui lottare
, con fatica e dolore.
 
E poi se ne vanno, come erano arrivati. 

Adagio, a piccoli passi cauti.




E tu rimani lì, con un bel po’ di pensieri con cui fare i conti. Quello di un bambino visto giorni prima. Il padre lo aveva portato in quello stesso punto, lui ha dato un'occhiata in giro una volta e ha detto “Che schifo” e il padre ha fatto un mezzo sorriso, forse stava pensando "com'è in gamba mio figlio e che idee  chiare ha"; se ne sono andati senza neanche guardarsi intorno.
Quello di te stessa, fino a un minuto prima alle prese con i soliti tarli mentali, infastidita da cento cose. Sto invecchiando, ho messo i pantaloni corti ma non avrei dovuto, faccio pena, ora sarò a disagio tutta la mattina. Forse mi sta venendo di nuovo mal di testa, uffa, sarebbe il secondo in una settimana. Mi annoio un po’, vorrei essere altrove. E l'inconsistenza che, all'improvviso, ha assunto tutto questo; tutto ciò che fino a un attimo prima era la un pezzo non secondario della tua realtà interiore.

Ma soprattutto ti chiedi se queste persone nascano così, combattive, coraggiose; se c'è qualcuno che viene al mondo con una forza speciale dentro. O se è il dolore che risveglia risorse inaspettate. L’amore per la vita che ci rende forti  proprio quando siamo diventati disperatamente fragili. Che strane creature siamo. Capaci di questa grandezza tanto più commovente in quanto infinitamente vulnerabile e totalmente senza difese, eroi disarmati e forse un po' folli, minuscoli lottatori feriti che sfidano le stelle. Dobbiamo venire spezzati perchè emerga l'essenziale, ciò che ci tiene in vita, ciò che veramente vale, ciò che lega i pezzi insieme e dà loro un senso; dobbiamo venire lacerati perchè tra i lembi dilaniati si riveli il filo portante, che è cosí sottile e così maledettamente facile da recidere, ma brilla e risplende come luce pura.  



E sai anche che in altri momenti non la vedrai in questo modo. Penserai -stai diventando cinica, ultimamente, e amara- che tutto questo è solo un grande, fenomenale inganno. Che l'istinto di sopravvivenza fa il suo mestiere fosse anche a tue spese, facendoti aggrappare con le unghie e i denti ad un disperato brandello di vita, anche quando sarebbe tanto più ragionevole riconoscere la fine, chiudere gli occhi e lasciarti scivolare giù, con una sola ultima speranza: che l’acqua sopra si richiuda il più presto possibile e non faccia troppo male. O, almeno, non per molto. Che è solo il banale, mero impulso di afferrare qualcosa quando stai cadendo, che ti fa stringere più forte tanto più l'appiglio è fragile e precario.


Ci saranno momenti in cui saranno questi i tuoi pensieri, sì
Ma non adesso. Adesso pensi soltanto a che meccanismo strano, oscuro e misterioso è il cuore umano. A volte va in mille pezzi per un minuscolo granello di sabbia tra gli ingranaggi; altre attraversa uragani che scuoterebbero una montagna. E pensi che può essere così potente e commovente e meraviglioso chi ha la forza ed il coraggio di andare contro ciò che è, semplicemente, "ragionevole". Che la bellezza sentita vale quanto quella vista e più, molto di più di quella che non si sa vedere. E, soprattutto, che la possibilità merita già la scommessa. 

                                                                                ***



C’è di bello, negli occhiali da sole, che nessuno si accorge se, una qualunque mattina d’agosto, improvvisamente ti ritrovi con gli occhi lucidi.




***


19 novembre 2015

Stay connected



Pensato a luglio-agosto, messo giù stasera.(*)

(*) La ragazza è veloce, oh



Alloggetto in montagna, piccolissimo e con mobili di recupero, spartani; oggetti ridotti all’essenziale. Ci passerai qualche giorno, o forse molti. E, per una tua dimenticanza, lo devi fare senza neanche un libro. Roba che dopo un paio di giorni hai una crisi d’astinenza da parola stampata che, dopo aver letto per la quinta volta pure gli ingredienti dei sofficini casomai ti fossero sfuggite delle sfumature, tipo i tormentati risvolti psicologici della panatura, sei ridotto in condizioni tali che rimpiangi persino il vecchio libro di inglese di prima media. Che, come lettura, non è che fosse proprio appassionante:


This is a pen. That is a table.


Vabbe’, dai; non lagnarti. Pensa a chi sta peggio di te. Pensa a chi legge Moccia.  
E poi, comunque, era solo questione di pazientare per quattro o cinque pagine. Perché poi, all’improvviso, l’intreccio si infittiva:


This is not a table. This is a chair.


Grazie. Da solo non me ne sarei mai accorto, guarda.


This is not a dog. This is a book
 
Scemo io, che da un’ora sto a lanciargli legnetti aspettando che li riporti.


This is not a book. This is a dog.
 
Ecco perché ringhiava ogni volta che cercavo di sfogliarlo.


This is not your sister. This is a garbage can ...uh, ehm, no: this is actually your sister.



E sei, anche, senza uno straccio di connessione internet. Qui, tra i bricchi e i verdi pascoli, dove le ricerche le fai con Mooooogle e gli acquisti con e-bèèèèèy. Naturalmente il fido smartofono con la cover jelly blupuffa è con te -separartene, quando mai; ma la connessione in zona è del tipo Pidgeon Recommended; nel senso che se mandi un piccione fai prima. Immagino che qui la copertura possa supportare (si noti l’abile giro di parole per dribblare il linguaggio tecnico, di cui non so un picchio) solo un traffico dati limitato. Ma proprio piccino picciò. Insomma: il figlio di quelli che abitano nell’ultima casa su verso la pineta ospita un amichetto per la notte, e tu ti ritrovi disperato a contemplare sul display messaggi di errore e failure assortiti, mentre maceri nell’angoscia al pensiero che in quello stesso momento nella tua fattoria virtuale su Hay Day frotte di fantapolli aspettano inesistenti mangimi, si consumano stragi di pseudoporcelli trascurati e mucche immaginarie muggiscono invano la loro fittizia disperazione.

Figuriamoci poi come funziona, in queste condizioni, il tuo vecchio netbook, processore Lumakòn I (ed ultimo), che pant-pant-eggia pure quando ha a disposizione autostrade di traffico dati ombreggiate da alberate di giga. E dire che l'acquisto, soltanto una o due ere geologiche fa, era avvenuto dopo lunga e ponderata analisi, per due motivi di altissima valenza tecnica. In sostanza, perchè il suddetto era  


   a)      

    in offerta  
  

   e (soprattutto)

b)       
 
    rosa.


Tra l’altro a suo tempo –un paio di anni prima-  era stato pubblicizzato con una certa enfasi, compensiva di slogan “Il netbook che si crede un notebook”. Il computer con crisi d’identità, uao. Il tuo, più che altro, tra obsolescenza, anni di disuso e mancati aggiornamenti, si crede una interessante via di mezzo tra un frullino, un paraspifferi e un gurzo del Borneo.
Insomma, per farla breve: qui tra le vette la parola “ricerca” non evoca scorpacciate di giga, ma l’immagine di un tizio dall'aria smarrita che vaga per le uniche due vie del pese chiamando disperatamente “PINOOOOO!!!! Dove sei???”. O un tale –episodio vero- palesemente preoccupato, che dice a tutti quelli che incontra nella passeggiata lungolago “Scusi, ho perso il cane. Se ne vede uno, le spiace dirgli ‘Ringo?’ Se vede che reagisce, é lui: gli dica con decisione "A casa!": di solito capisce”.



Va da se’, a questo punto, che non hai neanche il televisore. 
Il che non sarebbe un problema, in teoria. Di solito te la tiri pure: “Tv, io? Pfui.” Seee: facile, finchè le sere fuori dalla finestra hanno tonalità di blu accettabili, perbenino, a misura d’uomo; screziate da lampioni e luci delle case vicine. Ma prova ad affrontarne una di quelle con un cielo nero come l’inchiostro, e il buio – non quello addomesticato allontanato negato rimosso da lampioni fari scritte luminose e palliativi assortiti, no: il buio vero, primordiale, assoluto, scuro come il nulla – in agguato un metro fuori dalla porta. Quello che puoi anche avere la luce accesa e non guardare fuori ma in qualche modo LO SENTI, comunque e in ogni momento; sai che c’è ed è tutto intorno e sopra e ovunque, avvolge casa tua come un bozzolo opaco e pesante e ti restituisce improvvisamente e senza mezzi termini la sensazione schiacciante della tua piccolezza; e improvvisamente ti senti così senza difese, così infinitamente solo. Tu prova: e dopo un po’ daresti pure l’ultimo pacco di biscotti del negozio bio senza olio di palma a basso contenuto di grassi in cambio di qualsiasi cosa coloratasonorasemovente in grado di frapporsi tra te e il Nulla tutto intorno, fosse anche una maratona dei Teletubbies commentata da Solfrizzi.




Così ti ritrovi senza schermi tra te ed il tempo da far passare, senza scorza protettiva, per la prima volta da... da? Anni, probabilmente. A spendere lunghe, lente giornate tra una passeggiata tanto per fare, la spesa minimal all’unico negozietto, qualche parola con la ragazzuola alla cassa o la signora anziana dell’alloggio accanto. Ovviamente, ti crolla addosso la noia. Un macigno di noia, che manco Willycoyote. Decidi che basta, domani scendi; e che cavolo. Poi telefoni a qualcuno che è giù in pianura, o ricevi qualche messaggino. Qui fa un caldo folle, dormo con la borsa del ghiaccio nel letto, se sapessi, non si respira... Insomma: alla fine, rimani.
E un po’ per volta, nel vuoto di quel silenzio insolito, arrivano i pensieri. I tuoi pensieri. Che all’inizio, diciamolo, non sono certo una compagnia brillante, o gradevole, o facile.
Anche perché hanno questo brutto modo di fare, i pensieri; che prima mettono il capino fuori timidamente, esitanti, sorpresi da questo gran silenzio improvviso; ma poi prendono sicurezza e allora si allargano, approfittano della situazione, invadono tutto lo spazio, fanno un gran rumore.

E ritrovi ansie, preoccupazioni, paure. La cosa a cui cercavi di non pensare. L'ostacolo che hai evitato di affrontare. Il bisogno represso o negato, per orgoglio o rassegnazione o entrambi. La cicatrice che fingevi scomparsa ma avevi solo nascosto molto bene. Bilanci, naturalmente; ma questo sarebbe il meno, che intanto li fai ogni due per tre. Ma anche prese di coscienza scomode, o pensieri sgradevoli e che non vorresti abitassero dentro di te. Difetti che ti tocca riconoscere, parti di te che non ami o non vorresti o semplicemente sono diverse da quello che di solito spacci per “te stesso” e invece sono lì e non si scappa, o trovi il modo di superarle, davvero e senza trucchi, o ci fai la pace una volta per tutte, semmai tirando giù di una tacca l’opinione che avevi di te e allo stesso tempo capendo che non necessariamente questo ti renderà una persona peggiore, perché un essere umano può essere piú della somma delle sue parti.



E poi.




E poi un giorno, senza motivo apparente, senza che sia successo niente di particolare, ti accorgi che stai bene. Che il frastuono dentro è diventato una voce pacata e i tuoi pensieri, ora, sono una compagnia di volta in volta rivelatrice, sorprendente, amica, riposante, quieta, dolce. E allora, improvvisamente, ti accorgi di essere connesso, come non lo eri da chissà quanto. Connesso con ció che ti circonda. Il silenzio, le foglie sugli alberi, l'ombra del sentiero sotto i pini, i colori del cielo che si riflettono nel lago, questa brezza leggera che ti accarezza la pelle e spettina un po' i capelli.


Ma, soprattutto, connesso con te stesso. Con il tuo cuore, come un amico ritrovato dopo tanto tempo. Forse un po’ stanco e un po’ invecchiato; ma forse, persino, guarda un po', una briciola cresciuto. Forse, in qualche momento di grazia, con quello di qualcun altro. E pazienza se forse l'incontro durerà solo un attimo, luminoso come un riflesso di luce sull'acqua e altrettanto breve, effimero, irripetibile: comunque, è già qualcosa

E' già tanto.


Perchè, adesso, sei piú che mai connesso. 

Con la vita.