20 luglio 2015

GENERAZIONE SELFIE



Dopo un anno e più di letargo, l’Orbettino rimette fuori il capino. Timidamente, forse solo per un momento; giusto il tempo di dare uno sguardo intorno. Meno scherzoso e più meditabondo. Ma tant’è: fa quello che può, povera creaturina ingenua e ultimamente anche alquanto ammaccata, per dirla tutta; ma oh: a Orbettino tornato non si guarda in bocca. E quindi, dopo questa colossale scemata giusto per dimostrare che non abbiamo perso la mano, vai con




Diario di montagna  - SELFIE GENERATION




Sedute sul pontile del laghetto a pochi metri da me, in questa mattina di luglio, tre ragazzine. Ovviamente, carine. Immancabili pantaloncini corti sui corpi nuovi nuovi che l’altro ieri non c’erano, capelli lunghi, visi da bamboline ancora senza l’oltraggio di una ruga. In quel momento magico della vita e in quello che, a quell’età, credi sia il tuo assetto definitivo: e invece lo scoprirai durare poco più di una stagione, qualche sera d’estate  o qualche battito di ciglia a voler essere più lirici ma va be’, in qualsiasi modo lo esprimi la sostanza è che tutto questo è poco più di una fregatura ma per adesso non lo sapete; e se lo sapeste non è detto che lo apprezzereste di più, anzi, probabilmente comincereste fin da ora a rovinarvi la vita con l’ansia anticipatoria e il tarlo subdolo della preoccupazione che si insinua un po’ in ogni cosa, portandosi via una volta per tutte quella sensazione di serenità assoluta e senza ombre che, anche questa, appartiene solo a questa età. Quindi godetevelo finchè potete, questo momento: ne avrete, poi, di tempo per accettare il fatto che il vostro vero “te stesso”, quello che vi scarrozzerete in giro per quattro o cinque decenni e che gli altri assoceranno all’idea di voi, sarà una specie di estraneo con un accenno di pancia, il doppiomento e una vena varicosa che sta venendo fuori e per cui un'amica ti ha consigliato un prodotto erboristico favoloso... Sì, proprio come quelle persone che ora, con la crudeltà senza cattiveria dell'età, indistintamente, che abbiano settant'anni o trenta, bollate con l’etichetta di “vecchie”.




Ma sto divagando. Torniamo a loro, ancora lì, sedute pochi metri più in là, in questa mattina di luglio. Loro che parlano fitto, scherzano, ridono: e in tutto questo mimica e mobilità dei loro volti sono assolutamente normali. Ma ogni tanto, a intervalli di tempo quasi regolari, spunta l’immancabile smartphone e il reltivo selfie-moment. E qui ecco che il trio rivela la sua peculiarità generazionale: la capacità di congelare all’istante, in un fermoimmagine vagamente inquietante, qualsiasi atteggiamento ed espressione; sia quello reale del momento, sia un’improbabile scenetta costruitissima, con sorriso sfavillante da star in passerella abbinato a posa ad atissimo tasso vampesco da modella professionista, sia l’immancabile (e inconcepibile prima del’avvento di FB e compagnia) boccuccia paperomorfa. E conservarlo così, assolutamente immobili, immuni da qualsivoglia imbarazzo, indifferenti agli accadimenti a loro intorno, senza minimamente vacillare o mostrare segni di umano cedimento, per un tempo potenzialmente infinito.




E qui, impietoso, ti scatta il confronto.




Con noi di tutt’altra generazione che, posti di fronte a un autoscatto, puntualmente ci troviamo a lottare con il desiderio improvviso quanto impellente di strizzare gli occhi, la palpebra che balla, il sorriso che gradualmente si trasforma in una paresi isterica, mentre ci piomba addosso pesante come  un macigno la cruda consapevolezza di quanto sia patetica la nostra espressione fintissima rivolta al nulla e, in generale, della totale idiozia di ciò che stiamo facendo, agli occhi del prossimo e di noi stessi (e figuriamoci se poi, oltre a questo, stessimo tenendo in mano un bastone col telefonino al fondo, mentre decine di persone ci passano accanto). Finchè quando, dopo dieci lunghissimi secondi di agonia, arriva il fatidico istante dello scatto e veniamo immortalati e consegnati ad una posterità in realtà quantomai effimera con i muscoli facciali contratti ed i denti digrignati, nella difficile eppur realizzata sintesi di un’aria spiritata che Jack Nicholson diventerebbe verde di invidia e l’espressione vispa e sprizzante intelligenza del merluzzo picchiato in testa da piccolo. Nonché, nove volte su dieci –cosa di cui il merluzzo in questione, ammettiamolo, non sarebbe capace, e che pertanto dimostra la nostra superiorità sullo stesso- gli occhi chiusi.



E del resto cosa aspettarsi, sa noi che, goffi adolescenti degli anni ’80 o anche dopo ma in modo alquanto abusivo, perché sì, siamo proprio noi, la generazione che ha inaugurato l’usanza di prolungare un’adolescenza truffaldina fino i 30 e oltre - al fondo di qualche cassetto conserviamo pile di albumini di foto con la copertina colorata e le bustine in cellophane crocchettante, quelli che il fotografo ti dava in omaggio quando andavi a ritirare le stampe; e dentro le foto delle prime vacanze in autonomia, o lontane gite in montagna con gli amici. E, tra queste, l’immancabile autoscatto di gruppo. Perché li facevamo anche noi, cosa credete? Solo che, cosa strana, li facevamo per catturare un ricordo, trattenere un momento che stavamo davvero vivendo e come lo stavamo vivendo. Per riguardarle in seguito; e chissenefrega se eravamo spettinati, sudati, goffi, vestiti alla can che scappa e mezzi sconvolti dopo quattro ore di salita sudando come meduse spiaggiate; e se quelle immagini erano sì da rivista patinata, ma a patto che fosse un numero di Riza Psicosomatica dedicato all’autostima, sul quale sarebbero apparse con la didascalia illuminante “Consolati: vedi che c’è chi è messo molto peggio di te?”. Sono ancora tutti lì, quei momenti in cui delle copie di noi stessi con venti anni in meno, così giovani, così  buffe e commoventi insieme da guardare ora, istintivamente si inclinavano tutte da una parte per assecondare l’inclinazione della macchina fotografica appoggiata precariamente e  alla membro di bracco sopra un sasso sbilenco. E se guardi bene distingui il prescelto, colui che aveva premuto il pulsante dell'autoscatto e poi nei fatidici dieci secondo era rientrato di corsa nel gruppo, perché è quello che cerca di darsi un tono di naturalezza e contegno come se essere sorpreso dallo scadere dei fatidici dieci secondi in una via di mezzo tra l’impiedi e il seduto, in bilico sulla punta del piede sinistro, con il collo proteso telescopicamente da una parte nel timore di non entrare nell’inquadratura e un inquietante sorriso digrignato che manco Jack Nicholson fosse la posizione più spontanea del mondo.

Noi che, per inciso, mai ci saremmo sognati di rovinare una foto –che le pagavi pure un tot a stampa, cosa neanche negativa considerato che per decenni ha salvato l’umanità dall’invasione di foto di gattini pucciosi- facendo assurde boccucce paperesche, e col cavolo che avremmo fotografato il vassoio degli affettati.




E così,  in una mattina di luglio, improvvisamente realizzi che non è tanto  la ciocca di capelli bianchi che ormai  da anni cerchi truffaldinamente di far passare per biondo chiaro, o il ragazzino che in un attimo ha fatto impietoso scempio del tuo look vagamente-alternativo-ma-con-gusto e giovane-ma-non-troppo-comunque-facendo-bene-attenzione-a –non-cadere-nel-giovanile, chiamandoti educatamente “signora”. E neanche la voce di velluto ruvido rigorosamente anni '80 di Tanita Thikaram che in questo momento ti risuona negli auricolari, o il fatto che opportunamente torturato ti riveleresti vergognosamente in grado di ripetere a memoria l’intero testo di Montagne Verdi (la sola canzone, insieme a Dio è morto, che tu sia mai riuscito a strimpellare alla chitarra, la minore mi minore e cose così, imparati su un fascicoletto con un titolo tipo "200 accordi di chitarra": roba che adesso trovi su qualunque sito internet, ma allora erano trenta paginette semidistrutte dall'uso che consideravi preziose come la tua stessa vita): nessuna di queste cose ti rende un fossile guida, tanto quanto il fatto che mentre noi, davanti ad un autoscatto, per quanto fintamente sorridenti, non possiamo fare a meno di sentirci, in fondo, irrimediabilmente e completamente cretini, loro, i figli del 2000 o giù di lì, non solo davanti a qualsiasi dispositivo atto alla registrazione di immagini passano istantaneamente in modalità Red Carpet-ON, ma  sono venuti al mondo con la funzione Freeze.

1 commento:

  1. Oramai le giovani generazioni son dentro fino al collo in queste dinamiche che, comunque, hanno fatto presa pure su di noi adulti. Confesso di essere preoccupata per come le cose si stanno evolvendo. Tutto virtuale, tutto. Uffici (sia privati che della PA), conti correnti bancari, Tribunali. Selfie, social network, e via dicendo.I rapporti umani STANNO SPARENDO. O tempora, o mores.

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