Alice guarda i gatti
e i gatti guardano nel sole
Mentre il mondo sta girando senza fretta...
Non mi dire che non l’hai mai cantata.
Questo post non sarà granchè, mi sa, perchè è un periodo un po’ così. Temo che verrà fuori vispo e pimpante come un paracarro sotto la pioggia e divertente come una detartrasi da un dentista col singhiozzo. Però, se vi va di seguire l'Orbettino anche questa volta...
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Su un forum che seguo, c’è un topic: “Capisci di essere vecchia quando…”.
Sviluppiamo il tema?
Ok. Via.
Intanto, non è quando realizzi che per qualche dodicenne di oggi De Andrè rientra nella musica classica, incastrato un po’ scomodo tra Mozart e Beethoven, magari con un abusivo parrucchino incipriato sulle ventitrè. Anche se, diciamolo: è un duro colpo, per te che sei cresciuta a pane e cantautori.
Appartengo a quella generazione che ha formato i propri gusti -musicali e non- nei primi anni ‘80, quando l’onda lunga dei cantautori ancora era sospesa nell’aria. Un attimo ancora, e sarebbero arrivati i Righeira. Ma noi, che eravamo fighi, straziavamo note incolpevoli e torturavamo una chitarra innocente nella vana speranza di strapparle, tra un giro di do sbilenco e un unico ritmo zum-pa! zum-pa! zum-pa! (comprensivo di fantastica variante zum! pa-zum! pa-zum! ), un impossibile accordo di fa diesis minore settima quasi nona diminuita poi aumentata insomma prendi un picchio di decisione una buona volta vabbè senti facciamo ottava e qualcosa e non se ne parla più carpiata con avvitamento, che solo per tenere premute tutte quelle cavolo di corde ti servivano pure i denti, una terza mano e la collaborazione di un vicino di casa di passaggio.
Io, tra le nuvole e senza interessi politici, scoprivo le canzoni –già allora vecchiotte, ma passavano ancora per radio- di Roberto Vecchioni. Ripensandoci adesso, botte di allegria che non vi dico: testi come “Invecchierai/ senza cambiare mai/ (…) e poserai / la testa, e allora dormirai” (dedicata alla madre e a quando sarebbe morta), “E quando verrà l’ora di partire, vecchio mio /scommetto che ti giochi il cielo a dadi anche con Dio” (dedicata al padre e a quando sarebbe morto) (immagino che i familiari di Vecchioni passassero un bel tot delle loro giornate a fare scongiuri e toccare tutto l’umanamente toccabile), “che strano sogno / guardarsi intorno / e non vederti più” (se interpretavo bene, dedicata al padre, che nel frattempo era morto). Quasi tutti cantati, per aumentare ulteriormente l’atmosfera di contagiosa, incontenibile allegria, simulando una voce rotta dal pianto. I miei compagni di classe, molto politicizzati, respiravano Guccini e De Gregori. Ho il traumatico ricordo di una festicciola di diciottesimo compleanno in cui, giovani scriteriati, avevamo cercato di ballare Primavera di Praga (non ditemelo, lo so: ho avuto un’adolescenza difficile).
A parte il transitorio conforto di Buonanotte fiorellino, che comunque il più delle volte se chiedevi ad un amico (maschio) di cantartela alla chitarra ti inceneriva con lo sguardo, ferito nella propria nascente ma già fiera virilità, manco gli avessi chiesto di fare il Ballo del Qua Qua in tutù rosa confetto e cappellino da fatina vezzosamente sulle ventitré volteggiando soave come un farfallo in mezzo al parcheggio dei bus degli ultrà del Toro all'uscita di un derby perso 5 a 0; a parte questo, dicevo qualche decina di subordinate fa, anche lì avevamo cose allegrissime. “Dio è morto”, “son morto /che ero bambino”, “Hanno ammazzato Pablo”, “con una corda sul collo / freddo pendeva Michè“, “Stefania era bella, Stefania non stava mai male (ah be’, uno dice a questo punto: almeno questa è ottimista. Sentiamo il seguito, dai) / è morta di parto gridando in un letto sudato di un grande ospedale”.
Ah ecco.
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Le canzoni politiche, dicevo, non mi attiravano. Ma una di Guccini, piuttosto atipica, mi piaceva molto. Si intitolava “Cinque anatre” e raccontava il volo delle suddette balde paperoidi che migravano verso luoghi più caldi.
Quattro morivano.
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Del resto, noi eravamo quelli per i quali nelle gite scolastiche, sul pullman, il top del divertimento era regalare al mondo nuovi fantastici significati della parola “stonare” ululando come coyote impallinati a morte, con entusiasmo degno di miglior causa, cose tipo “ma cosa hai sentito /quando lo schianto ti ha uccisa/ quando la macchina è uscita di lato /e sopra un’altra è finitaaaa”, “tra le lamiere contorteee” ,“Sull’autostrada cercavi la vita /ma ti ha incontrato la morteeeeee...”.
Ripensandoci adesso, che figata senza pari doveva essere, per l’autista. Ci pensi? Sentirti tutte queste belle cosine beneauguranti, mentre stai appunto guidando il pullman in autostrada. Roba che il tapino, se non avesse dovuto tenere il volante, si sarebbe toccato anche quelle di suo zio. Forse, se mentre cantavamo lo avessimo guardato, ci saremmo accorti che il povero infelice, in quei momenti, le mani in altre faccende affaccendate, guidava con il volante tra i denti.
Ma torniamo al tema.
Non è neanche quando stai cercando di fare lezione (che già non è che, spiegando i principi della termodinamica alla quinta ora del sabato, hai tutta questa folla entusiasta in delirio. Cioè, apprezzi già che non ti lincino. C’è gente a cui è successo per molto meno) e dall'aula vicina parte l’ennesimo documentario sparato a tutto volume. Perché se esiste una cosa, nell’universo, meno allettante per il quindicenne medio che il secondo principio della termodinamica a mezzogiorno e mezza del sabato, è il secondo principio della termodinamica a mezzogiorno e mezza del sabato sentito una parola sì e una no, inframmezzato dall’audio di un documentario sugli antichi egizi, la produzione dei catarifrangenti per triciclo o la depressione meteropatica nei tapiri. E quindi, in un momento di sconforto, ti sfugge, dal profondo del cuore, un "E noooo: anche oggi il Gurzo del Borneo!"
E 20 paia di occhi quindicenni ti guardano attoniti.
Perché non hanno mai visto, i teneri virgulti, la Gialappa’s e i FONDAMENTALI documentari di Sir Lipton Ice Tee.
(Per la cronaca: a questo punto, per giustificare la strana battuta, ti tocca cercare di spiegare cos’era il Gurzo del Borneo. Il che è facile, dignitoso e per nulla imbarazzante. No, davvero: un momento di una tristezza infinita. Perché, anche se di solito cerchi di essere, sul lavoro, una persona passabilmente seria, non è che puoi uscirtene con “Quindi voi non conoscete il Gurzo del Borneo? Ah ecco” e poi riprendere il discorso di prima come se niente fosse; mentre venti persone, improvvisamente ridestate dal sonno, sono lì a chiedersi “Ma cos’è ‘sto picchio di Kurzo di Bruino?” Voglio dire, in quanto a stravaganza -diciamo così - ci faresti una figura ancora peggiore. Sempre che sia possibile. E poi, comunque: in certi casi, se ti accorgi che ti stai scavando la fossa, prendi la pala e vai fino in fondo. Sii uomo, oh.)
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No.
Questi sono colpi duri; ma quello di grazia è un altro.
Quello che ti stende e ti lascia tramortita a boccheggiare al suolo come una balenottera spiaggiata qualsiasi, e senza manco quelli di Legambiente tutti intorno che ti buttano secchiate d’acqua e i fessi che ti riprendono con il telefonino e si scattano i selfie per FacciaBucco.
Il che, forse, non è neanche così negativo.
Voglio dire: pensandoci bene, sarebbe abbastanza una seccatura.
No: il colpo da KO ti arriva a tradimento, una volta che stai comprando un capo di abbigliamento –una cosa qualsiasi, scelta senza particolari aspettative estetiche, solo perché in quel momento ti serve ed è funzionale- e la commessa, balda ragazzuola in età pressochè pediatrica, una che l’altro ieri proprio solo all’ultimo momento ha cambiato idea e detto “anzi no: per il mio compleanno niente Barbie Spacciatrice, Ken Bancarottiere Fraudolento e zainetto delle Winx, vojo i leggins neri skinny shiny effetto latex e le scarpe plateau tacco 20”; questa animuccia candida ed inconsapevole, dicevo, sinceramente delusa dallo scarso entusiasmo che stai dimostrando nei confronti dell’acquisto, il quale evidentemente turba il suo coscienzioso e zelante cuoricino commessiforme, tutta ansiosa di portarti alle più alte vette del giubilo per la scelta testè compiuta, pronuncia la fatidica frase:
"E poi, è giovanile".
GIOVANILE?????
Giovanile sarà la tu’ nonna quando la domenica pomeriggio va a ballare il lisssio con l’Orchestrina Danzante Olindo e i suoi Discoli, Grande Gara Di Rumba, Passo Loffio E Cha Cha Cha aperta a Tutti I Simpatici Partecipanti, in palio per la coppia prima classificata fornitura di un anno di Polident A Gratisse.
No. Davvero.
Non credevo che sarebbe mai toccato a me, sentirmelo dire.
Io, GIOVANILE????
Che poi, già in sè è uno dei dieci concetti più orridi dell'universo conosciuto.
E che picchio: o sei giovane, o non lo sei.
Essere in forma, magari dimostrare qualche anno di meno, benissimo.
Ma “giovanile”…
"Giovanile" sono quei look che erano di moda negli anni'80 e forse anche allora adatti sì e no alla partecipazione ad eventi prestigiosi tipo Grande Rottura Delle Pignatte (altrui) al PalaFagiolo (ve lo assicuro, esiste dalle mie parti, o pelomeno esisteva qualche anno fa) di Castellotto VallePuffa; però rivisti con provvidenziali orli al ginocchio e punto vita caritatevolmente non segnato, nell'illusione di nascondere colline abusive ed avvallamenti pericolosamente a rischio smottamenti, le pancere-miracolo delle televendite (“e dimostrerai una linea perfetta!” Come no: e suderai e boccheggerai peggio un orso polare che fa esercizi di apnea a mezzogiorno di una giornata di fine luglio indossando una muta da sub in una risaia di Vercelli) e magari –tocco audace, per la donna che osa osare- la sciarpina in voile fantasia animalier che manco Moira Orfei il giorno che ha litigato con un coguaro e l’ha steso a testate.
"Giovanile" sono le simil-sneaker addomesticate in versione con confortevole tacco 4 cm -che slancia la gamba e rispetta la schiena- e la punta larga compatibile con l'alluce valgo e vagante e callo-friendly.
"Giovanile", soprattutto, è chi non è più giovane. Ma cerca ancora, un po’pateticamente, di sembrarlo.
“Giovanile” è non saper fare i conti con il tempo che passa, e trasformare qualcosa che spesso è, effettivamente, amaro (accidenti quanto lo è) nella propria scialba parodia. Purtroppo, non meno amara. Solo, più goffa.
Certo, accettare il cambiamento è difficile. Oh, se lo è. E io, anche se sto scrivendo queste cose, non ho niente da insegnare a nessuno. Anzi ho da imparare, dall’ottuagenaria danzerina e zompettante, la capacità di affrontare la vita con ottimismo e strapparle, a qualsiasi età, quel po’ di sorrisi che può dare. Signora, se mi fa un corso, ho qui carta e penna per gli appunti.
Però, non so: spero di potermi permettere di stazionare ancora per qualche anno, seppur sempre più abusivamente, nel limbo di un'età intermedia-imprecisata-generica. Dopodichè vorrei –anche se, per ora, non potrei esserne più lontana- riuscire ad accettare di essere una gradevole persona esattamente dell’età che ha.
Magari, dentro, un po' stramba.
Con un angolino del cuore ancora un po’ infantile, che racconta di Orbettini e cose bislacche.
E lo stesso, se vi va, auguro a voi.
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(Per inciso: la mia chitarra, alla fine, si è suicidata. Davvero. Non me lo sto inventando, è successo qualche mese fa. Si è sentito un “CRACK!” molto forte ed è caduta. Senza che nessuno la toccasse. Voostro Onore, lo giuro: io non c'entro. L'ha fatto di sua iniziativa. L’ho raccolta: il manico si era spezzato. Sì, lo so: il legno seccato, la tensione delle corde; cose così. Spiegazioni razionali, per chi non sa cogliere l’essenza delle cose. Ma io lo so: era rimasta traumatizzata da piccola, da anni di De Andrè e compagnia accompagnati a “zum! pa-zum! pa-zum!”. Poraccia.)
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Inciso numero due: i gatti di Alice citati all’inizio, nella prima strofa “guardano nel sole”.
Ma, giusto per tranquillizzarvi: nella seconda, muoiono.
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Per chi è sopravvissuto alla lettura soporifera ed è arrivato fin qui con gli occhi ancora aperti: angolino serio.
Del resto, ormai siamo in modalità cantautori – ON; quindi avete capito che aria tira.
Dato che si è parlato di Vecchioni...
Il mito di Orfeo. Che però qui, dopo aver sfidato gli inferi per salvare Euridice, decide di proposito di voltarsi a guardarla.
Per separarsi da lei.
Per molto tempo ho pensato che fosse poco più di una stravaganza da intellettuale. Solo qualche giorno fa, credo, ho capito.
Che è un passaggio attraverso il dolore, ma anche un'evoluzione: la volontà di non potarsi più dietro (dentro) un amore morto, o una stagione della vita che non può tornare. O una parte di sè che fa male. E di ricominciare a vivere, finalmente, guardando avanti: “perché là fuori / si intravedono le stelle”.
Non “si vedono”, no, non ancora: le intravedi appena. Ma dopo tutto quel buio, ora, improvvisamente, sai che ci sono. Ed è già tanto... oh, se è tanto.
Ma, per arrivare a questo, a volte devi prima attraversare il dolore fino in fondo, scendere fino al fondo del tuo inferno.
Roberto, Roberto, mio grande amore, struggente poeta che abbiamo incoscientemente sottovalutato e sprecato... PERCHE' sei finito a fare i festival e le trasmissioni danzerine???
Ma questa canzone è… è… stupenda.
Roberto Vecchioni - Euridice