24 novembre 2013

It's just an illusion / illusion / to meeeee...



Questo post è dedicato alle illusioni.
Ci sono quelle importanti, profonde; quelle che sembrano più vere del vero. Tanto che ci costruisci sopra un pezzo di vita,  di te. Poi un giorno crollano e ti ritrovi a raccogliere i pezzi chiedendoti se riuscirai mai a rimetterli insieme.
Se ne valga la pena, soprattutto.
Ma forse sono necessarie, a loro modo. Tanto che a volte ti ritrovi a costruirtele tu, di proposito. Magari le chiami “speranze” ma la sostanza è quella; e in fondo lo sai benissimo. Eppure lo fai. Per avere qualcosa a cui aggrapparti; perché in qualche modo si deve pure andare avanti. Per dirti che non è finita, non ancora. Perchè non hai idea se sia tenacia o solo patetica ostinazione e incapacità ad accettare la realtà per quella che è, ma ancora non ti sei rassegnato ad arrenderti una volta per tutte. 
Sono i fari dell'auto di fronte, che segui nel buio e ti indicano la strada. Ignorando che, forse, anche quello davanti si è perso, e ne sa quanto te. O che la strada, forse, non porta da nessuna parte. 
Ma intanto vai avanti, comunque sia; ed è già qualcosa. 
A volte, è già tantissimo.


 ***

Ma l’Orbettino è un esserino giulivo e giocoso; e quindi non parlerà di queste illusioni.
Sono altre le illusioni  che coltiva e custodisce nel suo cuoricino orbettinoso. Sono quelle piccolissime, minuscole, minime. Sprazzi di luce che risplendono per un attimo appena. Dopodichè la tua autostima, che in quell'momento aveva vissuto la gloriosa ed inconsueta esperienza di una esaltante impennata, torna ad altezza Puffo, nello specifico un puffo ammaccato e piuttosto imbarazzato; o addirittura migra per altri lidi a tempo indeterminato. 
E già grazie se, prima di piantarti in asso,  lascia un cartello con scritto “Scusate l'assenza: sono andata a farmi un chinotto”.


1) Love Story, al confronto, ci fa un baffo


Vent'anni  o dintorni.  Venezia. (Per inciso: non so perché, ma tutto era più bello. I colori erano più smaglianti, le sensazioni più vive, i tramonti più dorati, le sere più dolci. Protesto formalmente: ti distrai un attimo –diciamo, intorno ai trent’anni- e ti cambiano il mondo. Non vale.) Da poco disponevo della mia adorata prima macchina fotografica, una compatta a pellicola -si parla di ere geologiche fa, aoh- di quelle non reflex, in cui il mirino non riceveva l'immagine dall'obiettivo, che anzi normalmente si teneva coperto da un tappo e si scopriva solo al momento di scattare, ma da una finestrella a parte.
Stavo inquadrando un'originalissima immagine gondolosa che sicuramente mai occhio prima di me aveva colto ed obiettivo immortalato – la stessa identica inquadratura eternata, nello stesso identico scatto, da milioni di turisti, ognuno dei quali convinto di aver scoperto, impavido Marco Polo della pellicola, uno scorcio assolutamente unico- e stavo pure facendo del mio meglio per assumere un'espressione ispirata e, persino, artistica, quando mi si ferma davanti un tizio. 

Alto. 

Straniero. 

In divisa. Pantaloni di un candore immacolato. Sul cielo notturno della giacca costellazioni di bottoni dorati. Comprese nel prezzo spalline e ghirigori vari in tinta. 
Stile da vendere (con il suo charme avrebbero potuto fare una decina di persone mediamente eleganti, e ne sarebbe ancora avanzato abbastanza per un gatto di classe). 
Chiaramente sceso da una nave. 
Che poi può pure essere il derattizzatore di bordo in libera uscita con il vestitino della domenica;  ma io, in quel momento, lo promuovo sulla fiducia come minimo comandante in capo ammiraglio Gran Mogol (sì, lo so: questo viene dalle Giovani Marmotte. Ma in fatto di gradi non è che io sia molto ferrata, e uno fa quello che può. Apprezzate la buona volontà, invece di fare tanto i pignoli, uffa) di un megatransatlantico.  

Lo guardo.   

Mi guarda – sì, guarda me. 

Nel mio cervello alcuni neuroni particolarmente esaltati iniziano ad intonare cori di montagna e jodel alpini (per dirla tutta, c'è pure uno sempliciotto che fa un solitario tentativo di Ballo Del Qua Qua, ma viene snobbato dai più).

Sorride. 

Neuroni entusiasti fanno la ola.

E, con elegante accento straniero, scandendo bene le parole e con appena un accenno di esotica incertezza nel foresto italico idioma, pronuncia la frase fatale. 

Parole struggenti e bellissime.

Poetiche.

Commoventi, quasi. 

Parole che non ho mai dimenticato e mai dimenticherò:


“Signorina. Tolga il tappo.”


E, così come era arrivato, se ne va.





 ***

Quell'uomo era un poeta.



 ***

E va be’: solo perchè stavo scattando l’ennesima foto SENZA AVER TOLTO IL TAPPO DALL’OBIETTIVO.


***

Per la cronaca: era un classico, con quel tipo di macchine fotografiche. Facevi una gita o un viaggio;  arrivato a casa portavi il rullino dal fotografo;  giorni dopo andavi a ritirarle, pieno di gioiosa aspettativa e…  eccola. 
C’era sempre. 
Lei. 
Sicura, come poche cose nella vita.
Implacabile come il destino.
L’immancabile foto NERA.
Perchè avevi  studiato l'inquadratura al millimetro, valutato, meditato, ponderato, misurato, regolato, controllato. E  dimenticato di togliere il tappo. 
Per la cronaca, negli anni successivi ne ho accumulato una discreta serie: 
il tappo a Parigi. 
Il tappo sulla Loira. 
Il tappo a Copenhagen.
Avrei potuto farne un album.
“Le vacanze del Tappo”.
Che, tra l'altro, suona pure male.



2)  Se vuoi che metà dei presenti guardino dalla tua parte...




Pomeriggio di una domenica invernale. Quelle giornate tutte bianche e grigie, gelide, che sembrano inventate apposta per fare da cornice ad una cioccolata calda con tanto di nuvoletta di panna in cima che magicamente trasformerà l'atmosfera da inospitale a supercoccolsa. Con un'amica stiamo appunto celebrando l'ipercalorico rito in un baretto carino. A un certo punto lei mi dice, con quel tono furtivo e sussurrato con mezza bocca soltanto che si usa per non attirare l'attenzione di terzi ed è l'equivalente vocale dell'aggirarsi in una torrida giornata d'agosto con impermeabile dal collo alzato, cappello alla Humphrey Bogart un po' calato sugli occhi e sciarpona tirata fin sul naso al fine di passare inosservati:  
"Non girarti subito, ma ci sono tre tipi ad un tavolo che continuano a fissarci". 
Aspetto un tempo ragionevole per non dare nell'occhio e non destare il minimo sospetto - tipo mezzo secondo, forse persino uno - e guardo. In effetti tre tizi stanno lanciando lunghi, ripetuti sguardi dalla nostra parte. 
Passano i minuti; noi a parlare dei fatti nostri, e al fondo della saletta quelli sempre a puntarci. 
In modo insistente. 
Fisso.  
Come gerbilli ipnotizzati da una forma di grana da conquecento chili che fluttua a mezz'aria dicendo "mangiami mangiami" e chiamandoli per nome con voce da sirena. 

(E lo so che questa mi è venuta una scemata, ma del resto i gerbilli non è che sono tanto intelligenti. Oh).
Insomma, è' una di quelle situazioni in cui il pensiero ufficiale è "E che du' palle!" e quello molto meno ufficiale  "apperò,  vedi che faccio ancora la mia figura!". 
Però, dopo un po' la cosa diventa davvero seccante, perchè, insomma, è decisamente eccessiva. 
Così tutto sommato è un sollievo quanto alla fine, dopo venti minuti buoni di quella scena, i tre si alzano ed escono. 
Non prima di aver ancora lanciato nella nostra direzione un pensoso, intenso, sofferto ultimo sguardo.


Noi stiamo ancora un po' a ciarlare, finchè ci alziamo anche noi per andarcene.
Così facendo ci voltiamo. E lo vediamo.
Fissato al muro, poco più in alto di dove eravamo sedute.
Lui.
Il catturatore di virili sguardi.
L'ipnotizzatore di maschie menti.

Un televisore, l'audio a zero.

E sullo schermo, le immagini

di una partita di calcio.

  ***

E quindi, qui giunti, possiamo completare il titolo.

Come segue:

Se vuoi che metà dei presenti guardi dalla tua parte... 

... piazzati davanti ad un televisore durante una partita.



E questa è la morale di questa istruttiva e commovente istoria.

  ***

Notina - Riguardo all'episodio del tappo: su pensieri e sensazioni (stavo per scrivere "pensieri, parole, opere e omissioni") ho ricamato un po'; ma la parte oggettiva è successa tale e quale. 
Quello del bar sembra inventato, tanto è basato su uno stereotipo; invece è vero al 100%. 

9 novembre 2013

Tu chiamale, se vuoi / distrazioniiii....


Anche se le potresti chiamare in molti altri modi. Decisamente più espressivi.
Ma noi qui siamo personcine fini, quindi le chiameremo così.

Oh.


Dunque, in ordine rigorosamente sparso:


1) Grazie della pantegana

La colpa non è mia, ma delle segreterie telefoniche.
La colpa non è delle segreterie telefoniche in generale, ma del malefico BIIIIP! .
Non quello iniziale, un buon BIIIIIIPpone per bene che fa onestamente il suo bippesco mestiere. Che poi, a parlare dopo il suddetto, più o meno siamo capaci tutti.
No: ce l'ho con il suo fratello perfido.
Quello finale.
Il subdolo. Quello che arriva a tradimento. E in genere sceglie il momento esatto in cui sei a metà del concetto principale di tutto il discorso, gasato e lanciato in piena enfasi oratoria, che manco Benigni quando commenta Dante.

Qualche giorno fa volevo riferire all'amministratore del condominio che la sera precedente, attraversando il cortile accanto alle cantine, avevo avuto un simpatico ed istruttivo incontro con un topone enorme, versione  Extralarge Prestige Executive Full Optional, recensita sull'ultimo numero di Pantegana Moderna (Per la cronaca, per gli amanti del genere: quattro stelline su cinque. Sul design niente da ridire e apprezzati gli esterni in vera pelle; ma in velocità la coda scarta leggermente a destra). Uno che se incontra un gatto se lo magna, e gli resta ancora un certo languorino (Non proprio fame: piuttosto, voglia di qualcosa di buono. Per esempio, una pantera). Non sono sicura di avergli visto la mantellina blu e rossa con la "S" di SuperRatto, ma mi è parso di sì.  E quindi, pur con tutta la stima che posso provare nei confronti del mondo animale in generale e quindi pure dell'animaletto in questione in particolare, azzarderei che sarebbe il caso di chiamare i derattizzatori.

C'era la segreteria telefonica: bene, nessun problema.
Ti pare che mi lascio mettere in difficoltà da una segreteria telefonica?
Pfui.

E me ne sono uscita con questo discorso:
"Sono Tizia. Ieri in cortile ho visto un topo ..." -segue descrizione DETTAGLIATA dello stesso. :roll: Compreso un fantastico "sarà stato lungo 15 centimetri solo di corpo, più altrettanti di coda".
Dopodichè ho realizzato che, avendola presa da Adamo ed Eva -avevo omesso giusto gli ultimi aggiornamenti sullo stato di salute della zia del soggetto e la favola preferita dal suddetto nella di lui topesca infanzia- avevo già sprecato un bel tot di tempo prezioso, e quindi dovevo tagliare. E nella fretta di concludere prima del secondo "BIIIIP!" -quello di cui sopra, l'infame- ho condensato la seconda parte del discorso producendomi nel seguente, mirabile sfoggio di capacità di sintesi:

"GRAZIE".




Cioè, riassumiamo:



"Buonasera. Ieri in cortile c'era un topo così e cosà, GRAZIE".

Manco ce lo avesse messo lui (l'amministratore), a mo' di strenna!

:duro:



Il giorno dopo quasi mi aspettavo che mi telefonasse (l'amministratore, non il topo) per dirmi "Ma prego! Sono contento che abbia apprezzato: l'avevo scelto proprio con cura!"




2) Se vai con l'arrotino, impari a sforbiciare



Successa qualche mese fa. 

Avevo portato un paio di forbici ad affilare in una coltelleria; il cui proprietario, il signor P., tra l'altro conosco di vista. Due giorni dopo vado a ritirarle. Entro nel negozio e ci trovo, anzichè il signor P., un ragazzotto, tutto gentile e sorridente. Il giovane e baldo discendente, evidentemente. Gli chiedo le forbici, lui mi domanda il cognome e cerca tra i cartellini delle varie appese accanto alla mola. Le passa in rassegna velocemente, ma il mio non si trova. Controlla meglio: niente. "E' sicura che ci dovessero essere per oggi?", mi chiede. Sì sì, sicura sicura. Al che le prende tutte, le mette sul bancone e le ripassa in rassegna una per una: in effetti, sbuca l'intruso, un paio clandestinamente cartellinoprivo. Possono essere quelle? Be', 'spetti; mo' famo il riconoscimento. Sì, forse sì; però un attimo... Le prendo in mano per esaminarle meglio, guardo la marca: no. A questo punto, provo a descrivergliele. Sì: come se fosse facile, descrivere un paio di forbici. Tutte di metallo (se non altro escludiamo già quelle rosa di Hello Kitty. E anche quelle tutte verdi a forma di coccodrillo con le lame con i denti, nel caso esistano). Nè grandi nè piccole. Non nuove, però neanche tanto vecchie. Insomma, più generico di così si muore. 
Praticamente gli ho raccontato l'idea platonica di forbice. 
L'essenza della forbicità. 

Davanti a me, ormai, c'è un affilatore di forbici alquanto perplesso. "Che io abbia sbagliato a mettere i cartellini? Però, mi sembra strano", si chiede il ragazzuolo, ammettendo l'ombra del dubbio sulla sua stessa professionalità forbiciatoria, fino ad oggi immacolata e scintillante. Intanto io guardo tra i vari esemplari presenti, cercando di riconoscere le mie, e gli dico che, in effetti, somigliavano molto ad un paio che vedo lì (tanto per non incasinargli ulteriormente le cose, ma non l'ho fatto apposta, davvero: mi è venuto così). "Eppure qui ho scritto *****" mi dice perplesso, leggendo il nome sull'etichetta "E non credo di essermi sbagliato, mi sembra proprio di ricordare la persona che le ha portate".
Ma vedo che le sue certezze professionali ed umane, già poste in discussione, stanno ormai vacillando pericolosamente.

Allora, da uomo coraggioso che affronta di petto il destino avverso, prende tre o quattro altre forbici già avvolte in carta di giornale, e disfa gli involti che aveva approntato con cura e forbicesco amore. 
"Non è che sono queste?"
Be': a questo punto mi spiace persino, deluderlo.
Si vede, che ci tiene.
Ma non sono quelle. 
Nisba. 
Niet. 
Nein.

"Ma le aveva lasciate in questo negozio?"

E certo, penso: erano forbici da affilare, le portavo dal gelataio?  Dal pollitacchinivendolo? Lui insiste: "Proprio in questo negozio?" Piuttosto sorpresa e spiazzata dalla piega surreale che la conversazione sta prendendo, giusto per farlo contento dato che sembra ci tenga tanto, faccio un diligente -per quanto poco convinto- giro su me stessa e mi guardo attorno a 360 gradi  -pensandoci ora, probabilmente il tutto deve essere apparso abbastanza ebete- e confermo. 
"Ma le ha lasciate a me?" 
Ah bene: questa la so. 
Su questa vado forte.
"No no: c'era il signor P.".

Con la tranquilla fermezza che solo può vantare colui che custodisce un cuore limpido ed una coscienza  immacolata.

Al che il tipo mi guarda in modo strano. 
E mi dice: 
"La coltelleria P. è venti metri più in su. Io sono G. ". 
E (giusto per non infierire) mi indica il pavimento.
Sì, il pavimento.
Sul quale, su una moquette color sangue (forse quello di un cliente rompiscatole che anni addietro aveva fatto perdere dieci minuti reclamando delle forbici che in realtà aveva portato nel negozio della concorrenza; ma preferisco non saperlo), spicca un bel logo giallo stampato a caratteri cubitali che li vedrebbe anche un orbo distratto voltato di spalle con gli occhi chiusi in una notte di nebbia senza luna: 

"COLTELLERIA  G."

Ah ecco.


***

No, ma, dico: vivo in una cittadina (leggi: paesone) di provincia, con pochissimi tipi di negozi (praticamente ci sono solo banche e agenzie di viaggio e telefoninifici); ma abbiamo due, dico DUE coltellerie a venti metri di distanza??? 



Comunque il tipo aveva un bel carattere, ha preso la cosa sul ridere (in fin dei conti gli avevo solo fatto perdere dieci minuti mentre aveva un altro cliente in coda, spacchettare svariati incarti da lui fatti con tanta cura e amore, e insinuato sottili ma precisi dubbi circa le sue capacità di gestione di situazioni forbicesche). 
E mi ha pure accompagnata fuori dalla porta per indicarmi, molto gentilmente, dov'è la coltelleria della concorrenza.
Forse anche perchè, quando subito dopo il riconoscimento dell'equivoco, mi ha chiesto "Ma lei è pratica della cittadina?", gli ho risposto un salomonico "Ehm... Sì e no".
Perchè non mi pareva tanto il caso, a quel punto, di dirgli che
1) ci vivo da quando ci sono nata
2) in particolare, per quella strada ci passo due volte al giorno, da circa otto anni.



3) Anche una bilancia ha le sue esigenze

Un paio di anni fa, altro grande momento. Di quelli che, nel tempo, ricordi sempre con piacere.
Roba da raccontare ad ipotetici nipotini, con giusto compiacimento e meritato orgoglio.

Supermercato, zona verdure, con la classica bilancia servitevi-da-soli (e-non-fate-i-furbi-a-pesare-con-il-sacchetto-sollevato, che-dalla-cassa-vi-vediamo-benissimo. Anzi-vi-stiamo-già-puntando-come-falchetti. Giusto-perchè-lo-sappiate.). 
Avevo comprato quattro banane (shopping prestigioso, oh) e le volevo pesare. Digito diligentemente il numero che la cabala verdurofrutticola supermercatesca associa all'oblungo frutto e attendo fiduciosa.
Ma lo scontrino non esce. 
Riprovo: niente. 
Intanto è arrivata una signora, che aspetta dietro di me. Mi volto verso di lei e la coinvolgo nel mio bananesco impasse dicendole, con il tono di una che, nella vita, sa il fatto suo: "Dev'essere finita la carta: ho già premuto due volte e non esce niente!" Lei si avvicina, solidale -sono momenti difficili, cosa credete- e  ritento in sua presenza. Di nuovo niente: la bilancia, per nulla intimidita dalla presenza di testimoni, persevera nel suo bieco atteggiamento ostile.
Non dà segni di vita. 
Immota. 
Muta. 
Scontrinopriva. 
La signora solidarizza. Commenta "Eh già, deve proprio essere finita la carta!". Poi guarda la bilancia, e improvvisamente la vedo perplessa. 
La signora, non la bilancia. 
E mi dice: "Ma... ma... non ha messo niente sul piatto!

Insomma, il mio bravo sacchettino con le quattro-banane-quattro... 

Ce l'avevo, sì sì.

Certo, che ce l'avevo.

In mano.

 ***



Ripensandoci, probabilmente era perplessa anche la bilancia.


***